Dagli Stati Uniti di Trump alla Cina di Xi, dal conflitto in Ucraina a quelli (incrociati) in Medio Oriente, non c’è dubbio che per molti attori internazionali sia sempre più vicina “l’ora della verità”. Trump è già all’opera, ma quanto potrà davvero continuare a fare il disrupter-in-chief? Con quali conseguenze sull’ordine internazionale e sui principali alleati e avversari degli Stati Uniti? E con il fragile cessate il fuoco a Gaza è scoccata l’ora della verità anche per il governo Netanyahu e per Hamas?
È, d’altronde, l’ora della verità anche per l’Europa. In un contesto segnato da crisi internazionali, appuntamenti elettorali nazionali (in Germania) e ricorrenti crisi politiche (in Francia), i governi nazionali e una Commissione europea appena entrata in carica dovranno andare alla ricerca di risposte condivise su difesa, sicurezza economica e transizione verde.
Di tutte queste “ore della verità” parla il Rapporto ISPI 2025 con cui puntiamo a offrire, una volta di più, una bussola per un mondo che cambia.
Sintesi schematica by DeepSeek
Presentazione del Rapporto ISPI 2025
Titolo: Rapporto ISPI 2025 – L’ora della verità per l’ordine internazionale
Curatori: Alessandro Colombo e Paolo Magri
Il Rapporto ISPI 2025 analizza lo stato critico dell’ordine internazionale, segnato da crisi geopolitiche, economiche e istituzionali senza precedenti. Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, l’instabilità globale entra in una nuova fase, caratterizzata da tensioni transatlantiche, guerre regionali (Ucraina, Medio Oriente), e il declino del multilateralismo. Il volume esplora le sfide per l’Occidente, l’ascesa dei BRICS+, le contraddizioni della transizione ecologica e il rischio di una bipolarizzazione USA-Cina.
Segue : Sintesi schematica by Deepseek, Commento di Gian Luigi Betti, Indice dell’opera, Introduzione dei curatori Alessandro Volpi e Paolo Magri
Sintesi schematica
1. Un ordine internazionale in frantumi
- Crisi cumulative: Pandemia, guerra in Ucraina, conflitto israelo-palestinese e tensioni USA-Cina hanno accelerato il collasso del sistema liberale post-1989.
- Paralisi diplomatica: Assenza di negoziati significativi in Ucraina e Gaza; alleanze conflittuali (es. Iran-Russia, Corea del Nord a sostegno di Mosca).
- Militarizzazione globale: Aumento record delle spese militari, incluso in Europa.
2. L’impatto di Trump 2.0
- Sovranismo economico e politico:
- De-globalizzazione: Dazi, riduzione delle catene di approvvigionamento globali, pressioni su UE per aumentare le importazioni USA (gas, armi).
- Isolazionismo strategico: Possibile disimpegno dall’Ucraina e tensioni con la NATO (obiettivo: far spendere di più gli alleati europei).
- Conflitti interni: Polarizzazione sociale e istituzionale negli USA, con ripercussioni globali.
3. Europa alla prova
- Divergenze franco-tedesche:
- Germania in recessione, Francia con crescita ma alto debito.
- Disaccordi su difesa comune, energia, rapporti con Cina e USA.
- Autonomia strategica UE: Tra dipendenza dagli USA e necessità di indipendenza in settori chiave (tecnologia, energia, difesa).
- Guerra in Ucraina: L’UE potrebbe dover sostituire gli USA nel sostegno a Kiev se Trump ridurrà gli aiuti.
4. Le guerre regionali e i loro effetti
- Ucraina:
- Stanchezza delle popolazioni, ma ostacoli a una pace negoziata (garanzie di sicurezza, ruolo NATO).
- Rischi di escalation con il possibile ritiro USA.
- Medio Oriente:
- Declino dell’”Asse della Resistenza” (Iran, Hezbollah), ma rinascita della questione palestinese.
- Israele diviso internamente e isolato a livello internazionale.
5. La competizione USA-Cina e i BRICS+
- Cina in difficoltà:
- Economia dipendente dall’export, consumi interni stagnanti.
- Sfide tecnologiche (sanzioni USA su AI e semiconduttori).
- BRICS+ in espansione:
- Nuovi membri (Indonesia, Cuba) e progetti di moneta comune per sfidare il dollaro.
- Eterogeneità interna (tensioni tra Cina, India, Russia).
6. Transizione ecologica e rischi geopolitici
- UE in ritardo: Obiettivi di decarbonizzazione al 2030/2040 a rischio per costi e dipendenze strategiche (es. filiera delle rinnovabili controllata dalla Cina).
- Paradosso climatico: L’Europa contribuisce solo al 6% delle emissioni globali, ma paga il prezzo più alto nelle politiche verdi.
7. Diritto internazionale sotto pressione
- Crisi dell’ONU: Blocchi al Consiglio di Sicurezza (veti incrociati), violazioni del diritto umanitario (Ucraina, Gaza).
- Appello a riforme: Necessità di adattare le istituzioni multilaterali al nuovo contesto multipolare.
8. America Latina tra due modelli
- Brasile (Lula) vs Argentina (Milei):
- Lula promuove multipolarismo e cooperazione con BRICS.
- Milei, nonostante il liberismo, mantiene legami con la Cina (Belt and Road).
Conclusioni e scenari futuri
- Momento di svolta: Il 2025 potrebbe definire se il mondo si avvierà verso:
- Un nuovo bipolarismo (USA vs Cina) con alleanze rigide.
- Un multipolarismo fluido (BRICS+, UE, attori regionali).
- Rischi principali:
- Guerra commerciale USA-UE.
- Escalation militare in Asia-Pacifico (Mar Cinese Meridionale).
- Collasso degli accordi climatici.
- Opportunità: Rafforzamento del multilateralismo “flessibile” (es. BRICS) e cooperazione Sud Globale.
Parole chiave: Trump, NATO, BRICS, guerra Ucraina, Medio Oriente, autonomia strategica UE, decarbonizzazione, multipolarismo.
Il Rapporto ISPI 2025 delinea un mondo in bilico tra conflitto e riorganizzazione, con l’Occidente chiamato a ridefinire il proprio ruolo in un sistema sempre meno centrato sul dominio USA. La sfida è evitare la frammentazione totale, preservando spazi di cooperazione.
Commento di Gian Luigi Betti
Il mondo secondo il Rapporto ISPI 2025: dominio, crisi e fallimento dell’ordine liberale
Il Rapporto ISPI 2025, curato da Alessandro Colombo e Paolo Magri, getta uno sguardo lucido su un mondo attraversato da crisi globali e da profondi mutamenti negli equilibri geopolitici. Dopo la vittoria nella Guerra fredda, gli Stati Uniti si sono ritrovati padroni incontrastati del sistema internazionale. Ma anziché costruire un ordine stabile e cooperativo, hanno scelto di dispiegare la loro supremazia finanziaria, economica e militare per esercitare un dominio globale di natura neocoloniale.
All’ombra delle bandiere ideologiche del liberismo, Washington ha imposto un nuovo sistema di vassallaggio planetario, servendosi anche di strumenti apparentemente neutri come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Hanno sfruttato il lavoro povero del Sud globale, trasformato il dollaro in una moneta di speculazione e ricatto, e dettato regole ferree a quelli che chiamano “alleati” – in particolare gli europei, ridotti fin dal secondo dopoguerra a ruoli subalterni sotto stretta sorveglianza.
Tutto questo è stato mascherato dalla retorica trionfalistica della “fine della storia”: la promessa di un mondo finalmente libero e pacificato sotto la bandiera della democrazia e del mercato. Ma, come accadde già a Napoleone e poi a Hitler, il mondo si è rivelato un boccone troppo grande da digerire. La tanto vagheggiata pace universale si è rivelata una Pax Americana nel senso più oscuro del termine, ricordando il passo di Tacito: «Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant» – dove fanno il deserto, lo chiamano pace.
Le crisi attuali – il confronto tra Stati Uniti, Russia, Cina, BRICS e il “resto del mondo” (con l’Unione Europea assente ingiustificata) – e le guerre in aumento di cui raramente si comprende il senso, testimoniano almeno due verità fondamentali. Primo: gli Stati Uniti non governano più il mondo, e il principale responsabile di questa perdita di egemonia è proprio l’eccesso di ambizione imperiale. Hanno peccato di gola nel momento decisivo e ora soffrono di un’indigestione di potere mal gestito. E, quel che è peggio, non sembrano aver imparato nulla: continuano ad annaspare, incapaci di riconoscere i propri errori, ormai privi della legittimità necessaria a guidare l’ordine globale.
Secondo: il cosiddetto “mercato”, in realtà un capitalismo monopolistico e predatorio, contiene in sé i germi dell’autodistruzione. Le guerre non sono eccezioni ma conseguenze sistemiche: esiti logici di un modello che genera instabilità, competizione sfrenata e disuguaglianze intollerabili.
Il Rapporto ISPI 2025 rappresenta una lettura preziosa per comprendere la profondità di questo passaggio storico. Ancor più utile se affiancato a un altro testo dello stesso Alessandro Colombo: Il suicidio della pace. Perché l’ordine internazionale liberale ha fallito (1989–2024) (Cortina, 2025), una riflessione potente e radicale sull’illusione di un ordine liberale universale, e sulla miopia strategica che ha accompagnato la fase unipolare americana.
Vedi la Presentazione
Indice
Introduzione Alessandro Colombo, Paolo Magri
PARTE I. L’ORA DELLA VERITÀ PER IL MONDO
1. Il mondo in bilico. La crisi infinita dell’ordine internazionale Alessandro Colombo
2. Il diritto internazionale alla resa dei conti Fausto Pocar
3. L’ora della verità per il commercio: la vittoria del “trumpismo”? Lucia Tajoli
4. Il Sud Plurale in un mondo multi – allineato Giovanni Grevi
PARTE II. L’ORA DELLA VERITÀ NEL MONDO
5. Stati Uniti, l’ora della verità per Trump Mario Del Pero
6. Russia – Ucraina, l’anno cruciale? Eleonora Tafuro Ambrosetti
7. Cina, le tante incognite per Xi Filippo Fasulo, Paola Morselli
8. Medio Oriente, l’alba di un nuovo ordine? Valeria Talbot, Ugo Tramballi
9. America Latina, l’ora della verità per Milei e Lula Antonella Mori
PARTE III. L’ORA DELLA VERITÀ PER L’EUROPA
10. L’ora della verità transatlantica : la nuova Commissione e la open strategic autonomy Moreno Bertoldi, Franco Bruni
11. Instabilità politica in Europa: l’ora della verità per Germania e Francia Erik Jones, Antonio Villafranca
12. La difesa dell’Europa: ora o mai più? Antonio Missiroli
13. Green Deal, è tempo per un reality check Massimo Lombardini
2024: la pagella dell’expert panel
Gli autori
Introduzione di Alessandro Volpi e Paolo Magri
La crisi dell’ordine internazionale, iniziata già a metà del primo decennio del XXI secolo e precipitata, negli ultimi cinque anni, nella sfortunatissima successione della pandemia del Covid – 19, della guerra in Ucraina e di quella in Medio Oriente, sembra essere sprofondata nell’ultimo anno in una drammatica impasse . Prima della fragile tregua a Gaza concordata a metà gennaio, non c’era stata alcuna traccia di sviluppi diplomatici significativi tanto nella guerra in Ucraina quanto in quella in Medio Oriente le quali, al contrario, avevano continuato a coinvolgere e destabilizzare anche le aree circostanti. All’inizio del 2025 le relazioni tra l’Occidente e i suoi maggiori sfidanti, la Russia e la Cina, si ritrovano nello stesso stato di paralisi e tensione di un anno fa. Anche al loro interno, tutti i maggiori attori continuano a soffrire delle stesse vulnerabilità politiche, economiche e istituzionali, a conferma di un preoccupante circolo vizioso tra instabilità interne e instabilità internazionale.
Una condizione come questa non può protrarsi a lungo senza rischiare di raggiungere il punto di rottura. A maggior ragione dopo che i risultati delle ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti e il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca hanno introdotto in questo fragilissimo equilibrio un altro elemento di imprevedibilità e, prevedibilmente, di tensione. Almeno in questo senso, quello nel quale ci troviamo può essere considerato un momento della verità, destinato a mettere alla prova tutti i principali attori e a sommuovere tutte le principali dimensioni delle relazioni internazionali: la redistribuzione già in corso della gerarchia del potere e del prestigio internazionale, per la prevedibile ascesa di nuovi soggetti e il declino di altri; la stabilità e, soprattutto, il grado di apertura dell’economia e del commercio internazionale; la tenuta stessa del tessuto istituzionale e normativo della convivenza internazionale, messo a durissima prova dalle vicende drammatiche degli ultimi tre anni.
Questo crinale – una parola che, non a caso, ha la stessa radice della parola “crisi” – riguarda prima di tutto le relazioni politiche, diplomatiche e strategiche delle quali si occupa il primo capitolo di Alessandro Colombo. E nelle quali la paralisi e il rischio di rottura si esprimono, tanto per cominciare, nel collasso ormai definitivo degli strumenti di controllo e governance prefigurati nella fase di ascesa dell’ordine internazionale liberale dell’ultimo trentennio. Si complicano, sul terreno geopolitico, per effetto della inquietante riapertura dei vasi comunicanti tra i diversi conflitti regionali, testimoniata anche nel corso dell’ultimo anno dal sostegno incrociato dell’Iran alla Russia e della Russia all’Iran, dall’invio di migliaia di militari dalla Corea del Nord sul fronte ucraino, oltre che naturalmente dalla fornitura di armi da Europa e Stati Uniti a Ucraina e Israele. Ma, soprattutto, si affacciano sul rischio stesso della guerra, al quale tutti i principali attori si stanno precipitosamente preparando attraverso un aumento impressionante delle spese militari che, a differenza che negli ultimi decenni, non risparmia più neppure l’Europa.
Fianco a fianco con la dimensione politica e militare – e in rapporto continuo sebbene non scontato con essa – le crisi degli ultimi anni hanno esposto anche le vulnerabilità della dimensione giuridica della convivenza internazionale, di cui si occupa il capitolo di Franco Pocar. Il quale non esita a riconoscere che, anche prima dell’aggressione russa all’Ucraina, la comunità internazionale stava già assistendo a un pericoloso aumento di conflitti armati con azioni unilaterali prive dell’intervento o del consenso del Consiglio di sicurezza dell’Onu, normalmente impotente a intervenire per il voto contrario di uno o l’altro dei membri permanenti. Così come riconosce che, negli ultimi tre anni, anche le norme del diritto internazionale umanitario sono state ripetutamente violate tanto nel conflitto internazionale russo – ucraino quanto nelle operazioni militari seguite all’attacco terroristico di Hamas e alla risposta armata di Israele. Ma da ciò Pocar ammonisce a non ricavare una prognosi di inadeguatezza del diritto e delle istituzioni a regolare la vita di relazione internazionale: se mai, ancora una volta, la necessità (urgente come non mai) di adattarle a un contesto già radicalmente cambiato rispetto all’epoca di fondazione delle Nazioni Unite.
Non sorprendentemente, un’ora della verità sembra attendere anche le relazioni economiche internazionali, a cominciare dal terreno commerciale del quale si occupa Lucia Tajoli. Se, infatti, gli ultimi anni avevano già visto aumenti tariffari generalizzati, politiche di sostegno alla cosiddetta “autonomia strategica” in Unione europea e in varie aree del mondo, oltre che un maggiore orientamento verso la produzione e la domanda interna in Cina, con la seconda elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti vedremo molto presto se la globalizzazione continuerà il suo corso e se gli scambi internazionali manterranno i livelli attuali. A pesare sul futuro, in particolare, sono diverse incognite: la forte diminuzione del sostegno al libero scambio da parte di diversi governi e, ancora di più, delle rispettive opinioni pubbliche; l’aumento delle tendenze protezionistiche proprio nel paese, gli Stati Uniti, tradizionalmente associato al libero scambio; lo sdoganamento che ciò comporta delle politiche neo – mercantilistiche e l’incentivo all’emulazione da parte di altri paesi; l’impatto di tutto ciò sul tradizionale quadro multilaterale del commercio internazionale, nonostante l’interesse che molte economie avanzate ed emergenti di medie e piccole dimensioni continuano a manifestare per la sua permanenza.
Nel quadro della dimensione economica, poi, ma con ovvie conseguenze sulla questione di ancora maggiore portata della salvaguardia dell’ambiente, un passaggio critico lo sta vivendo anche la cosiddetta transizione ecologica. Di questa dimensione si occupa Massimo Lombardini, concentrando l’attenzione sulle politiche e gli ambiziosi obiettivi dell’Unione europea. Dopo i successi degli ultimi due decenni, il prossimo stadio delle politiche energetiche dell’Unione richiederebbe di decarbonizzare anche i settori non elettrificabili. Un’impresa molto più difficile e costosa, che rende già problematico l’obiettivo di decarbonizzazione del 55% al 2030 ma, a meno di miracoli tecnologici, sembra rendere del tutto irrealistica la riduzione delle emissioni del 90% entro il 2040. Con due ulteriori problemi. Intanto, il rischio geopolitico di un trasferimento della dipendenza energetica nei confronti dei petrostati verso altri paesi che controllano la filiera dell’elettricità e delle rinnovabili, primi fra tutti la Cina. A cui si aggiunge il dato di fatto che il contributo dell’Unione europea alle emissioni globali di gas a effetto serra è ormai solo di circa il 6% del totale.
L’ora della verità che sembra incombere sulle relazioni internazionali nel loro complesso abbraccia singolarmente anche tutti i loro protagonisti. A cominciare, naturalmente, dai due più direttamente investiti dal nuovo scossone del ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti: America ed Europa. Dell’impatto della rielezione di Trump sugli Stati Uniti si occupa Mario Del Pero. Che ricostruisce, tanto per cominciare, il significato politico – concreto del richiamo alla “sovranità” che domina la retorica e gli orientamenti del nuovo presidente: sovranità in senso economico, intanto, con l’accento sulla re – industrializzazione e sull’emancipazione degli Stati Uniti dalla loro dipendenza da supply chains transnazionali; in senso securitario, con il già preannunciato irrigidimento dei rapporti non soltanto con l’avversario per eccellenza, la Cina, ma con gli stessi alleati; e in senso politico – ideologico, infine, con il richiamo al recupero del controllo sul territorio e sulla stessa identità americana. Di tutti questi orientamenti Del Pero esamina anche i possibili cortocircuiti: i costi economici del disaccoppiamento dalle altre maggiori economie; le prevedibili tensioni con gli alleati; l’aggravamento dei conflitti politici, culturali e sociali all’interno stesso del paese.
Ma è l’intero complesso delle relazioni transatlantiche a essere chiamato in causa dal cambio di presidenza negli Stati Uniti. Antonio Missiroli si occupa della dimensione politico – strategica. Sebbene sia difficile prevedere quale approccio la nuova amministrazione americana sceglierà di adottare nei confronti degli alleati europei, è probabile che – in accordo con quanto già riconosciuto dal nuovo segretario generale della Nato, l’ex premier olandese Mark Rutte – essa insista sulla necessità di ritoccare verso l’alto il target per la spesa militare nazionale degli alleati. A queste richieste, Missiroli ha fiducia che gli alleati europei possano rispondere spendendo non soltanto di più ma anche meglio – in termini di priorità e allocazione delle risorse (fra personale, operazioni, equipaggiamenti, e ricerca e sviluppo) – e, soprattutto, spendendo assieme , anche per generare economie di scala e sinergie strategiche, riducendo sprechi e duplicazioni e facilitando l’interoperabilità. Il tutto, naturalmente, sullo sfondo della guerra in Ucraina dove, qualora l’amministrazione americana decidesse di disimpegnarsi dopo un eventuale cessate il fuoco, la responsabilità principale di garantire la tenuta dell’accordo, proteggere la futura linea di demarcazione, e tutelare la sicurezza dell’Ucraina (e indirettamente anche la propria, attraverso una sorta di forward defence ) finirebbe per cadere sugli europei.
Altrettanto complesso si presenta il versante economico e commerciale, trattato nel capitolo di Moreno Bertoldi e Franco Bruni. I quali muovono da un concetto, quello dell’“autonomia strategica” europea, che si riferisce alla capacità dell’Unione di agire autonomamente, senza dipendere da paesi a essa esterni, nel disegnare le proprie politiche in settori strategicamente importanti; e, per questo, trascende di molto la dimensione economico – commerciale per abbracciare un insieme eterogeneo di materie quali sanità, energia, tecnologia, materie prime critiche, fissazione di standard globali, finanza e moneta, formazione e trattenimento dei talenti, sicurezza e difesa. Ma è proprio dal fronte economico che è facile aspettarsi una delle sfide più immediate. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca preannuncia, infatti, un periodo di forti tensioni commerciali a livello transatlantico. Per cercare di evitare che queste tensioni sfocino in una vera guerra commerciale, osservano Bertoldi e Bruni, l’Unione potrebbe impegnarsi già da ora a venire incontro alle recriminazioni americane aumentando le importazioni statunitensi di alcuni prodotti, in primis il gas naturale liquido, gli armamenti e i prodotti agricoli. Ma qualora anche ciò non si rivelasse sufficiente, l’UE potrebbe trovarsi costretta ad adottare contromisure, sebbene in un contesto non certo brillante per l’Europa né dal punto di vista politico né da quello economico.
Proprio a questo contesto è dedicato il capitolo di Erik Jones e Antonio Villafranca. Che ricostruisce, per cominciare, il malessere che abbraccia in misura maggiore o minore tutte le democrazie del continente, e del quale la diffusione dei partiti populisti è soltanto una manifestazione, sebbene la più appariscente. Ma si concentra, in particolare, sui due paesi che hanno tradizionalmente costituito il motore del processo di integrazione, la Francia e la Germania. Per constatare, appunto, come anche la tenuta di questo motore sia diventata problematica. Perché entrambi i paesi sono in forte difficoltà, con un’economia (soprattutto in Germania) in recessione/stagnazione da due anni e una crisi politica (in entrambi i paesi) dagli esiti incerti. Perché si è imprevedibilmente alterato il rapporto tra le economie dei due paesi: se nei dieci anni prima del Covid la locomotiva tedesca viaggiava a una velocità maggiore (2% di crescita media annua in Germania contro l’1,4% in Francia), dal 2022 a oggi le parti si sono invertite con una crescita francese pari a 4 volte quella tedesca (sebbene compensata da un alto debito pubblico e da una bassa produttività del lavoro). E perché, anche in conseguenza di ciò, è aumentato il numero di dossier sui quali Francia e Germania si sono già trovate su posizioni diverse o persino antitetiche.
La coesione dell’Unione Europea continuerà a essere messa alla prova, infine, dalla guerra in Ucraina, della quale si occupa il capitolo di Eleonora Tafuro Ambrosetti. Anche per questa guerra sembra essere giunto, nel 2025, il momento della resa dei conti. Tanto per cominciare, perché anche su questa materia Donald Trump ha ripetutamente promesso una rottura rispetto all’amministrazione precedente, sottolineando la necessità di una fine immediata delle ostilità – anche senza passare necessariamente da una “pace giusta” in favore dell’Ucraina. In secondo luogo, perché tutti i sondaggi indicano una crescente stanchezza delle popolazioni ucraine e russe e una loro maggiore apertura verso una fine negoziata del conflitto. Infine, perché la durata della guerra sta sottoponendo a una prova durissima e sempre più difficile da sostenere sia l’economia che la società dei due paesi. Ma, anche qui, sulla strada della pace permangono enormi incognite; sul format e la composizione stessa dei negoziati, tanto per cominciare; sulla disponibilità delle parti a farsi concessioni reciproche; soprattutto, sulle future garanzie della sicurezza ucraina, non necessariamente attraverso l’ingresso del paese nella Nato.
Incertezze non minori gravano anche sull’altra guerra in corso, quella in Medio Oriente. A occuparsene sono Valeria Talbot e Ugo Tramballi. I quali sottolineano come gli eventi dell’ultimo anno sembrino avere rafforzato la posizione politico – militare di Israele, almeno in quanto la guerra contro Hezbollah in Libano, la caduta del regime di Assad in Siria e lo scontro ritualizzato tra Israele e Iran hanno comportato la progressiva riduzione dell’influenza iraniana e l’indebolimento del cosiddetto Asse della resistenza, la composita compagine di alleati e proxies su cui per decenni Teheran ha basato il proprio sistema di “difesa avanzata” nella regione. Ma tutto ciò non basta a cancellare il risultato politico già ottenuto dall’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, cioè il ritorno della questione palestinese sull’agenda internazionale. In una condizione nella quale Israele appare sempre più diviso al proprio interno e delegittimato al proprio esterno; il suo più immediato interlocutore, l’Autorità Nazionale Palestinese, ha confermato anche di fronte alla guerra a Gaza la propria irrilevanza; le relazioni tra stati arabi e stato ebraico hanno dimostrato nonostante i progressi degli ultimi cinque anni di essere ancora precarie; soprattutto, una fase di rinnovata competizione tra attori regionali rischia di essere alimentata proprio dall’opportunità di occupare gli spazi lasciati vuoti dal ripiegamento iraniano, sullo sfondo delle crescenti incertezze sul ruolo delle potenze extraregionali (Stati Uniti e Russia).
Ma è l’intero complesso delle relazioni internazionali a trovarsi in bilico. A cominciare, naturalmente, dall’asse che negli ultimi anni si è imposto come il più importante di tutti, le relazioni sino – americane. Paola Morselli e Filippo Fasulo esaminano il delicato passaggio che la Cina sta già attraversando sia sul versante politico che su quello economico, alla vigilia del nuovo corso della politica estera di Donald Trump. Su scala globale, è evidente l’interesse di Pechino a un contesto internazionale meno conflittuale e ostile, data la dipendenza dell’economia cinese dalla domanda esterna, visto che i consumi interni non decollano e uno stimolo economico non è realistico a causa dell’eccessivo indebitamento. Ma l’ambizione cinese di diventare leader globale in settori come l’intelligenza artificiale e le energie rinnovabili si scontra con i tentativi americani di limitare l’accesso di Pechino a tecnologie avanzate e risorse strategiche. Anche su scala regionale, l’obiettivo cinese di consolidare il proprio ruolo di leader asiatico incontra reazioni contrastanti. Se paesi come l’Indonesia sembrano intenzionati a rafforzare i legami con Pechino, attratti dalle opportunità economiche offerte dai Brics e dai progetti infrastrutturali della Belt and Road Initiative , altri come le Filippine stanno invece prendendo sempre più le distanze da Pechino, cercando il sostegno militare degli Stati Uniti contro l’assertività cinese nel Mar Cinese Meridionale.
Infine, la Cina ha un rapporto ambivalente con il cosiddetto Sud Globale e al suo interno, soprattutto, con il gruppo dei Brics. Di questi ultimi si occupa nel suo capitolo Giovanni Grevi. Che insiste sul carattere fortemente eterogeneo di questo gruppo che, in realtà, comprende paesi diversissimi tra loro per peso politico ed economico, regime politico e interessi. E che, non a caso, risente della compresenza e della competizione al proprio interno di due agende diverse, una più genericamente non – occidentale interessata a riformare il sistema multilaterale esistente e una più polemicamente anti – occidentale, promossa in particolare da Cina e Russia, orientata a edificare un ordine internazionale alternativo. Una competizione che si intreccia e si complica, a propria volta, con altre rivalità sia tra paesi appartenenti allo stesso complesso regionale, come quelle tra le potenze sunnite del Golfo e l’Iran sciita, o tra tra la stessa Cina e l’India. Tutto ciò non impedisce tuttavia al Sud Globale e, in particolare, ai Brics di occupare un posto sempre più rilevante nella politica e nell’economia internazionale, sia in termini di peso economico e demografico, sia per la capacità di contrapporre alla possibile bipolarizzazione del sistema internazionale una flessibilità diplomatica e un’inclinazione al multi – allineamento confermati anche alla “prova della verità” delle crisi più recenti.
Questa tensione tra bipolarizzazione a livello globale e multipolarismo a livello regionale si riverbera naturalmente anche all’interno delle singole regioni, quali l’America Latina esaminata nel capitolo di Antonella Mori. Dove il 2025 si rivelerà probabilmente decisivo per i due modelli alternativi di sviluppo politico ed economico promossi, in Argentina, dall’ultraliberista Javier Milei e, in Brasile, dal socialista Luiz Inácio “Lula” da Silva. La loro radicale differenza in termini di politiche economiche non si è tradotta, tuttavia, in un corrispondente allineamento internazionale. Contraddicendo alcune delle sue promesse elettorali, il presidente argentino Milei si è guardato bene dall’annullare l’adesione alla Belt and Road Initiative cinese, firmata nel febbraio 2022 dal suo predecessore. Mentre, da parte sua, il Brasile ha cercato di impedire l’adesione ai Brics di Cuba, Nicaragua e Venezuela, per evitare di rafforzare la componente dei paesi con posizioni apertamente anti – occidentali e sforzarsi di consolidare, invece, il proprio ruolo di attore globale in un mondo multipolare.
Questa tenace non coincidenza tra dinamiche globali e dinamiche regionali è l’aspetto più appariscente del nostro momento storico. Nonostante tutte le tensioni e le guerre degli ultimi anni, il sistema internazionale rimane lontanissimo dalla semplicità diplomatica, strategica e ideologica della guerra fredda. L’ora della verità non è l’ora della scelta tra un campo e l’altro o, almeno, non lo è ancora. Evitare questo esito sarà la sfida politica e diplomatica dei prossimi anni.
Alessandro Colombo, Paolo Magri
Il Report contiene Presentazione dell’editore Sintesi by Deepseek Commento di Gian Luigi Betti Indice dell’opera Introduzione dei curatori Alessandro Volpi e Paolo Magri