Il declino industriale dell’Italia di Alessandro Volpi

Vorrei provare a fornire qualche suggestione in merito al fatto che il nostro paese da troppo tempo non abbia politiche industriali, e mi scuso subito per la lunghezza del testo. Ormai da mesi la produzione industriale non cresce, l’occupazione ristagna con dati “drogati” dal numero di occupati che ritarda il proprio pensionamento e i salari reali sono tra i più bassi d’Europa. Le cause di questi fenomeni sono molteplici, ma certo pesa l’assenza di politiche industriali, di visioni di un miglioramento delle condizioni di vita delle italiane e degli italiani. Ma perché non ci sono più politiche industriali? La ragione di fondo, comune ai veri elementi che provo a mettere in fila, è costituita dalla accettazione fideistica del dogma neoliberale che ha assegnato ad una mal interpretata, e perversa, idea di mercato la soluzione di qualsiasi questione economica e sociale. In primo luogo, le politiche industriali sono rese impossibili dalla profonda trasformazione della proprietà delle imprese italiane, in particolare di quelle medio grandi, ma non solo. Negli ultimi anni la proprietà di tali imprese è finita nelle mani di fondi finanziari di duplice natura; i fondi che gestiscono il risparmio e i fondi hedge e private. Per quanto riguarda i grandi fondi di risparmio gestito, a cominciare dalle Big Three americane per arrivare ai fondi europei, la loro presenza è ormai cruciale in tutto il sistema bancario e assicurativo  italiano, in Enel, Eni, A2a, Hera, Terna, San, Stellantis, Leonardo, Iveco, Brembo, Magneti Marelli, Fincantieri, Prysimian, Diasorin, Reply, Ovs, Amplifon, Ferrari, Cuccinelli, monclear, solo per citare alcuni esempi. La loro presenza in tali società tende a finanziarizzarle, a rendere necessario un rendimento immediato degli investimenti fatti perché deve essere garantito il rendimento ai risparmiatori che hanno messo i soldi nei fondi: quindi profitti rapidi, tradotti subito in dividendi azionari senza alcuna attenzione al reinvestimento.

Ci sono poi i fondi hedge e private che, sia pur con tratti diversi, comprano aziende, le “ristrutturano” in genere licenziando e poi le rivendono ad un prezzo più alto rispetto a quello a cui le hanno comprate. E’ chiaro che con proprietà di questo tipo non è praticamente possibile alcuna politica industriale.

C’è poi il tema delle risorse per attuare politiche industriali. Di quelle private si è già detto: vengono dai fondi o da banche legate ai fondi che puntano a profitti e dividendi immediati, ottenuti con commissioni sulla vendita di prodotti finanziari e sugli alti tassi. Unicredit, solo per citare un caso, ha fatto 6 miliardi di utili in meno di sei mesi, in larghissima parte tradotti in dividendi. Per quel che riguarda le risorse pubbliche, pesa certamente la mancanza di visione complessiva anche per una naturale ostilità verso la programmazione, dettata dalla sudditanza neoliberale. Così, ogni anno, vengono erogati “sussidi”, sotto varie forme, dal fisco agli incentivi, alle aziende italiane, per quasi 60 miliardi di euro senza che questo migliori il livello dell’occupazione, delle retribuzioni, ma neppure la qualità e la produttività delle aziende beneficiate. Sempre sul versante delle risorse pubbliche, non esiste più una banca pubblica perché Cassa Depositi e Prestiti ragiona ormai come un fondo di investimento privato e caratteri analoghi manifesta il Fondo italiano d’investimento, creato in origine da CDP e poi privatizzato con la presenza di un rider d’assalto come Andrea Pignataro, e F2i, un fondo destinato alle infrastrutture con la presenza delle Casse di previdenza (26%), delle Fondazioni bancarie (25%), di Intesa San Paolo e Unicredit (20%), dei grandi fondi internazionali di risparmio gestito (15%) e della CDP; la sua azione è stata, di nuovo, simile a quella dei fondi privati, attenta al rendimento a brevissimo termine e solerte nel scegliere opere lautamente retribuite. Una considerazione a parte meriterebbero il Pnrr e i fondi strutturali che, in entrambi i casi, hanno inseguito e inseguono progetti di opere dove il principale, e pressoché unico, effetto economico è la spinta al settore dell’edilizia, certo già drogato dai superbonus.

Infine c’è un terzo aspetto che contribuisce a rendere impossibili politiche industriali e che è ancora legato alla fede neoliberale ed è costituito dal perseguimento di un modello economico votato alle esportazioni, rispetto al quale il vero dato di competitività è stato il brutale contenimento del costo del lavoro, a cominciare dalle delocalizzazioni e dalla proliferazione di contratti precari e sottopagati. Puntare sul mercato estero consente infatti di non preoccuparsi del mercato interno e quindi del potere d’acquisto di lavoratori e lavoratrici: un modello impoverente e che ora deve fare i conti con i dazi.

Mi scuso per la lunghezza, ma penso che una vera riflessione sulla necessità di ripristinare politiche industriali pubbliche, dotate di programmazione e di intervento statale sia ormai indispensabile. Sul tema, cruciale, di come finanziarle, tornerò in maniera approfondita.

Alessandro Volpi FB 23-7-25