MR 2005/11 Impero e Moltitudine

Samir Amin conduce una serrata critica al libro Impero di Michael Hardt e Antonio Negri con ampio riferimento anche alla loro successiva opera Moltitudine

di Samir Amin

Samir Amin è direttore del Terzo Forum Mondiale di Dakar, in Senegal. I suoi libri più recenti includono The Liberal Virus: Permanent War and the Americanization of the World (Monthly Review, 2004) e Beyond US Hegemony di prossima pubblicazione per Zed Books.


Impero post-imperialista o nuova espansione dell’imperialismo?

Michael Hardt e Antonio Negri hanno scelto di chiamare “Impero” l’attuale sistema globale. * La scelta di questo termine ha lo scopo di distinguere le sue caratteristiche costitutive essenziali da quelle che definiscono l'”imperialismo”. L’imperialismo, in questa definizione, si riduce alla sua dimensione strettamente politica, cioè all’estensione del potere formale di uno Stato al di là dei suoi confini, confondendo così l’imperialismo con il colonialismo. Il colonialismo quindi non esiste più, né l’imperialismo. Questa vuota proposizione asseconda il comune discorso ideologico americano secondo il quale gli Stati Uniti, a differenza degli stati europei, non hanno mai aspirato a formare un impero coloniale a proprio vantaggio e quindi non avrebbero mai potuto essere “imperialisti” (e quindi non lo sono oggi più di ieri, come ci ricorda Bush). La tradizione materialista storica propone un’analisi molto diversa del mondo moderno, centrata sull’identificazione delle esigenze per l’accumulazione del capitale, in particolare dei suoi segmenti dominanti. Portata a livello globale, questa analisi permette quindi di scoprire i meccanismi che producono la polarizzazione della ricchezza e del potere e costruiscono l’economia politica dell’imperialismo.

Hardt e Negri ignorano accuratamente ogni analisi che è stata scritta a questo riguardo, non solo dai marxisti ma anche da altre scuole di economia politica. Piuttosto, riprendono il legalismo di una Maruice Duverger o la volgare scienza politica dell’empirismo anglosassone. Così l'”imperialismo” diventa una caratteristica comune condivisa nello spazio e nel tempo da vari “imperi”, come quello romano, ottomano, coloniale britannico o francese, austro-ungarico, russo e sovietico. L’inevitabile crollo di questi imperi è legato a “cause analoghe”. Questo è molto più vicino a un giornalismo superficiale che a una seria lettura della storia. Ma ancora una volta, assecondano la moda attuale (dopo “la caduta del muro di Berlino”).

Non c’è dubbio che l’evoluzione del capitalismo e del sistema mondiale nel corso degli ultimi vent’anni abbia comportato trasformazioni qualitative in tutti i settori. Altra cosa è sottoscrivere il discorso dominante secondo cui la rivoluzione “scientifica e tecnologica” produrrà, da sola, forme di gestione economica e politica del pianeta che “supereranno” quelle associate, fino a poco tempo fa, alla difesa degli “interessi nazionali” e, inoltre, che questa evoluzione sarebbe “positiva”. Questo discorso procede sulla base di serie semplificazioni. I segmenti dominanti del capitale operano sì nello spazio transnazionale del capitalismo mondiale, ma il controllo di questi segmenti rimane nelle mani di gruppi finanziari ancora fortemente “nazionali” (cioè con sede negli Stati Uniti o in Gran Bretagna o in Germania, ma non ancora in una “Europa” che non esiste come tale a questo livello). Del resto, la riproduzione economica del sistema è, oggi come ieri, impensabile senza la parallela attuazione della “politica” che ne modula le varianti. L’economia capitalistica non esiste senza uno “Stato”, se non nella vulgata ideologica e vuota del liberalismo. Non esiste ancora uno stato transnazionale, “mondiale”. Le vere questioni, eluse dal discorso dominante della globalizzazione, riguardano le contraddizioni tra le logiche di accumulazione globalizzata dei segmenti dominanti del capitalismo centrale (gli “oligopoli”) e quelle che governano la “politica” del sistema.

Il sistema di Hardt e Negri, presentato sotto il termine che suona piacevole di “Impero”, procede, quindi, dalla visione ingenua della globalizzazione offerta dal discorso dominante. In questa visione, la transnazionalizzazione ha già abolito l’imperialismo (e l’imperialismo in conflitto), sostituendolo con un sistema in cui il centro è sia da nessuna parte che ovunque. L’opposizione centro/periferia (che definisce il rapporto imperialista) è già “superata”. Hardt e Negri riprendono qui il discorso comune in cui, poiché c’è un “primo mondo” di “ricchezza” nel “terzo mondo” e un “terzo mondo” di povertà nel primo, non ha senso contrapporre il primo e il terzo mondo l’uno all’altro. Certamente ci sono ricchi e poveri in India, proprio come negli Stati Uniti, dal momento che viviamo ancora tutti in società divise in classi integrate nel capitalismo mondiale. Questo significa che le formazioni sociali dell’India e degli Stati Uniti sono identiche? Non ha senso la distinzione tra il ruolo attivo di alcuni nel plasmare il mondo e il ruolo passivo di altri, che possono solo “adeguarsi” alle esigenze del sistema globalizzato? In realtà, questa distinzione è oggi più pertinente che mai. Nella prima fase della storia contemporanea (1945-1980), i rapporti di forza tra i paesi imperialisti e i paesi dominati erano tali che lo “sviluppo” delle periferie era all’ordine del giorno, lasciando aperta la possibilità per questi ultimi di affermarsi come agenti attivi nella trasformazione del mondo. Oggi questi rapporti sono cambiati radicalmente a favore del capitale dominante. Il discorso dello sviluppo è scomparso ed è stato sostituito da quello dell'”aggiustamento”. In altre parole, l’attuale sistema mondiale (l'”Impero”) non è meno imperialista, ma più imperialista del suo predecessore!

Hardt e Negri se ne sarebbero accorti se solo avessero preso nota di ciò che hanno scritto i rappresentanti del capitale dominante. Per quanto incredibile possa sembrare, non l’hanno fatto affatto. Tuttavia, tutte le parti principali dell’establishment statunitense (democratici e repubblicani) non fanno mistero degli obiettivi del loro piano: monopolizzare l’accesso alle risorse naturali del pianeta per continuare il loro stile di vita dispendioso, anche se questo è a scapito di altri popoli; impedire a qualsiasi potenza di grandi o medie dimensioni di diventare un concorrente in grado di resistere agli ordini di Washington; e di raggiungere questi obiettivi con il controllo militare del pianeta.

Hardt e Negri hanno semplicemente ripreso il discorso corrente in cui, essendo stati definitivamente sconfitti il “nazionalismo” e il “comunismo”, il ritorno di un liberalismo globalizzato costituisce un progresso oggettivo. Le “insufficienze” del sistema, se ce ne sono, possono essere corrette solo dall’interno della logica del sistema stesso e non combattendolo. E’ quindi facile capire le ragioni per cui si è unito alle fila dell’Europa atlantista e ha chiesto di sostenere il suo progetto di una costituzione ultraliberale asservita a Washington. Ma la vera storia del “nazionalismo” e del “comunismo” non ha nulla in comune con ciò che dice la propaganda liberale. Le trasformazioni sociali ispirate dal nazionalismo e dal comunismo nel corso di tre decenni nello stato sociale delle socialdemocrazie occidentali, nei paesi in cui il socialismo esisteva realmente e nelle esperienze del nazional-populismo radicale nel terzo mondo hanno costretto il capitale ad adeguarsi alle rivendicazioni sociali derivanti dalla logica del proprio dominio e hanno respinto le ambizioni dell’imperialismo. Queste trasformazioni sono state enormi e largamente positive, nonostante i limiti imposti dal carattere non sufficientemente radicale dei progetti in questione. Il ritorno (provvisorio) del liberalismo, reso possibile dall’erosione e poi dal collasso dei progetti del periodo precedente della storia contemporanea, non è un “passo avanti”, ma un vicolo cieco.

Le vere domande che riguardano il mondo contemporaneo possono essere formulate solo abbandonando il discorso liberale di Hardt e. Su queste questioni sono state elaborate tesi importanti e, naturalmente, diverse, tra l’altro nella prospettiva di un rinnovato materialismo storico, che Hardt e Negri ignorano. Mi accontenterò qui di ricordare le grandi linee delle tesi che ho proposto sull’argomento. In passato, l’imperialismo è apparso come il conflitto permanente tra le potenze imperialiste (al plurale). La crescente centralizzazione del capitale oligopolistico ha ora dato luogo all’emergere di un imperialismo “collettivo” della triade (Stati Uniti, Europa e Giappone). Da questo punto di vista, i segmenti dominanti del capitale condividono interessi comuni nella gestione dei profitti derivanti da questo nuovo sistema imperialista. Ma la gestione politica unificata di questo sistema si scontra con la pluralità degli Stati. Le contraddizioni all’interno della triade non hanno a che fare con la divergenza di interessi tra i capitali oligopolistici dominanti, ma con la diversità degli interessi rappresentati dagli Stati. Ho riassunto questa contraddizione in una frase: l’economia unisce i partner del sistema imperialista, la politica divide le nazioni interessate.

La moltitudine: costituire la democrazia o riprodurre l’egemonia del capitale?

L’ideologia liberale specifica del capitalismo pone l’individuo in prima linea. Poco importa che nella sua costruzione storica durante l’Illuminismo l’individuo in questione dovesse essere un uomo colto e proprietario terriero, un borghese capace, di conseguenza, di fare libero uso della Ragione. Questo fu un progresso liberatorio indistruttibile. Come movimento al di là del capitalismo, il socialismo non può essere concepito come un ritorno al passato, come una negazione dell’individuo. La democrazia borghese, nonostante gli angusti limiti in cui il capitalismo la rinchiude, non è “formale”, ma del tutto reale, anche se rimane incompleta. Il socialismo sarà democratico o non lo sarà. Ma aggiungo a questa frase il suo necessario complemento: non ci sarà più progresso democratico senza mettere in discussione il capitalismo. Democrazia e progresso sociale sono inseparabili. I socialismi realmente esistenti in passato non rispettavano certo questa esigenza e pensavano di poter realizzare il progresso senza democrazia o con la stessa poca democrazia del capitalismo stesso. Ma è anche necessario aggiungere che la grande maggioranza dei difensori della democrazia oggi non è certo più esigente e pensa che la democrazia sia possibile senza alcun progresso sociale visibile, per non parlare di mettere in discussione i principi del capitalismo. Hardt e Negri si lasciano alle spalle questa categoria di democrazia liberale?

La base individualista dell’ideologia liberale stabilisce l’individuo come soggetto della storia in ultima istanza. Questa affermazione non è vera, né per la storia dei sistemi precedenti (che secondo la definizione illuminista erano inconsapevoli dell’individuo) né per la storia del capitalismo, che è un sistema basato sul conflitto tra le classi, i veri soggetti di questo capitolo della storia. Ma l’individuo sarebbe in grado di diventare il soggetto della storia in un futuro socialismo avanzato.

Hardt e Negri pensano che siamo arrivati a questa svolta storica, che le classi (insieme alle nazioni o ai popoli) non sono più i soggetti della storia. Invece l’individuo è diventato tale (o è in procinto di diventarlo). Questo punto di svolta dà luogo alla formazione di quella che chiamano la “moltitudine”, definita in termini di “totalità delle soggettività produttive e creative”.

Perché e come si sarebbe verificata questa svolta? I testi di Hardt e Negri sono piuttosto vaghi su queste questioni. Parlano della transizione verso il “capitalismo cognitivo” o l’emergere della “produzione immateriale”, della nuova società “in rete” o della “deterritorializzazione”. Fanno riferimento alle proposizioni di Foucault sul passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo. Tutto ciò che è stato detto negli ultimi trent’anni, buono o cattivo che sia, a seconda dei punti di vista, se indiscutibile perché plausibile o fortemente discutibile, viene gettato in un grande calderone in preparazione del futuro. Un compendio delle mode attuali non porta facilmente alla convinzione. La somiglianza con le tesi formulate da Manuel Castells sulla “società in rete” e con le idee rese popolari da Jeremy Rifkin, Robert B. Reich e altri divulgatori americani è tale che si ha il diritto di porsi la domanda: cosa c’è di nuovo e di importante in tutto questo guazzabuglio di idee?

Proporrò quindi un’altra ipotesi per spiegare l’invenzione della “moltitudine” in questione. Il nostro è un momento di sconfitta per i potenti movimenti sociali e politici che hanno plasmato il ventesimo secolo (movimenti operai, socialisti e di liberazione nazionale). La perdita di prospettiva che ogni sconfitta comporta porta a disordini effimeri e alla profusione di proposizioni para-teoriche che legittimano quell’inquietudine e danno adito alla convinzione che essa costituisca un mezzo “efficace” per “trasformare il mondo” (anche senza volerlo), nel senso buono del termine, inoltre. Si possono consolidare gradualmente nuove formulazioni, coerenti ed efficaci, solo prendendo le distanze dal passato, piuttosto che proponendone un “rifacimento”, e integrando efficacemente le nuove realtà prodotte dall’evoluzione sociale in tutte le sue dimensioni. Tali contributi, discutibili e diversi, certamente esistono. Non includo tra loro il discorso di Hardt e.

Le proposizioni che Hardt e Negri traggono dal loro discorso sulla “moltitudine” testimoniano, anche nella loro stessa formulazione, l’impasse in cui sono intrappolati. La prima di queste proposizioni riguarda la democrazia che, per la prima volta nella storia, sarebbe sul punto di diventare una possibilità reale su scala globale. Inoltre, la moltitudine è definita come la forza “costitutiva” della democrazia. Questa è una proposta meravigliosamente ingenua. Ci stiamo muovendo in questa direzione? Al di là di qualche apparenza superficiale (qualche elezione qua e là), che ovviamente soddisfa le potenze liberali (in particolare Washington), la democrazia – necessaria e possibile – è in crisi. Rischia di perdere la sua legittimità a vantaggio dei fondamentalismi religiosi o etnici (non considero i regimi etnocratici dell’ex Jugoslavia come un progresso democratico!). Le elezioni che rovesciano il potere di una banda criminale (ad esempio, una al servizio dell’autocrazia russa) per sostituirla con un’altra (finanziata dalla CIA!) costituiscono un progresso per la democrazia o una farsa manipolata? Il dispiegarsi del progetto imperialista per il controllo del pianeta non è forse all’origine degli attacchi frontali che stanno riducendo i diritti democratici fondamentali negli Stati Uniti? Il consenso liberale in Europa, attorno al quale si sono unite le maggiori forze politiche di destra e di sinistra, non è forse in procinto di delegittimare le procedure elettorali? Hardt e Negri tacciono su tutte queste questioni.

La seconda proposizione riguarda la “diversità della moltitudine”. Ma le forme e i contenuti che definiscono le (diverse) componenti della moltitudine sono appena specificati più di quanto non lo siano le forze che producono e/o riducono questa diversità. Grandi contraddizioni attraversano di conseguenza tutti i testi di Hardt e Negri. Ad esempio, l’attuale globalizzazione, secondo loro, dovrebbe ridurre le “differenze” tra centri e periferie (altrimenti questa globalizzazione rimarrebbe imperialista). Il mondo reale si sta evolvendo nella direzione esattamente opposta, accentuando le “differenze” e costruendo l’apartheid su scala mondiale. La diversità all’interno delle componenti locali del sistema citato da Hardt e (in realtà solo nelle società nordamericane e dell’Europa occidentale) è essa stessa di natura “diversa”: ci sono (a volte, come negli Stati Uniti) “comunità” etniche o paraetniche, ci sono diverse regioni religiose o linguistiche, ci sono anche classi, forse (!), che sarebbe bene ridefinire sulla base della trasformazione delle realtà sociali! Anche quando tutte queste diversità sono state messe in fila, non è stato detto molto. Come si articolano l’uno con l’altro nella produzione, riproduzione e trasformazione dei sistemi sociali? È impossibile rispondere a queste domande fondamentali senza concettualizzare quelle che io chiamo “culture politiche”. Anche in questi settori vi sono contributi seri e positivi. Certo, sono discutibili, ma non possono essere ignorati. Hardt e Negri non hanno contribuito qui a nulla che si possa menzionare a sostegno della loro tesi.

Il capovolgimento che pone l’individuo come soggetto della storia e la moltitudine come forza costitutiva del suo progetto democratico è un’invenzione “idealista”. Suppone che si sia verificato un capovolgimento nel mondo delle idee senza una trasformazione dei rapporti sociali reali. Non sto suggerendo che le idee siano sempre solo riflessi passivi della realtà. Ho sviluppato il punto di vista opposto, fondato sul riconoscimento dell’autonomia delle “istanze”. Le idee possono essere in anticipo sui tempi. La questione qui non riguarda questa proposizione generale. Si tratta delle idee postmoderniste in voga oggi (comprese le idee degli stessi Hardt e Negri): sono in anticipo sui tempi? O sono solo l’espressione ingenua, confusa e contraddittoria della realtà del momento, un momento di sconfitta non ancora superato? In queste condizioni la “moltitudine” può diventare una realtà costitutiva di “diversità” indecise, varie e disgiunte. Può assumere l’apparenza di agire come una “forza reale” (una forte maggioranza elettorale, per esempio). Ma questo non è altro che effimero, destinato a cedere il passo a una struttura articolata e contraddittoria, come sempre nella storia. Tra qualche anno, la pagina della “moltitudine” si sarà probabilmente voltata, come è accaduto con l’operaismo (opéraïsme) degli anni ’70 e per la stessa ragione: la fissazione per il parziale e l’effimero, come notato da Atilio Boron in Empire and Imperialism (Zed Books, 2005).

La cultura politica che spicca dietro il discorso di Hardt e Negri è quella del liberalismo americano. Questa cultura politica considera la Rivoluzione americana e la Costituzione adottata in quel momento come l’evento decisivo per l’apertura della modernità. Hannah Arendt, l’ispiratrice di Hardt e Negri, scrive che questa rivoluzione apre l’era della “ricerca illimitata della libertà politica”. Oggi, l’emergere della moltitudine, forza costitutiva di una democrazia “possibile per la prima volta su scala mondiale”, corona la vittoria (positiva) dell'”americanizzazione del mondo”.

L’adesione al liberalismo americano è necessariamente accompagnata dalla svalutazione dei diversi percorsi delle altre nazioni, in particolare della “vecchia Europa”, come formulata da Hannah Arendt quando contrappone la Rivoluzione americana alla “lotta limitata contro la povertà e la disuguaglianza” a cui riduce la Rivoluzione francese. Nell’era della Guerra Fredda, tutte le grandi rivoluzioni dei tempi moderni (francese, russa e cinese) dovevano essere denigrate. Erano viziati fin dall’inizio dalla loro “tendenza totalitaria”, secondo il discorso liberale americano che divenne la punta di diamante della controrivoluzione dopo la seconda guerra mondiale. La sopravvivenza esclusiva del “modello americano”, la cui rivoluzione pionieristica e la cui costituzione non mettevano in discussione nessuna delle necessità dello sviluppo capitalistico, implicava che l’eredità di quelle rivoluzioni che avevano effettivamente messo in discussione le esigenze capitalistiche (come nel caso a partire dalla radicalizzazione giacobina della Rivoluzione francese) fosse ripudiata. La denuncia della Rivoluzione francese (François Furet), il banale antisovietismo e le accuse mosse contro il maoismo costituiscono alcuni dei principali pilastri di questa controrivoluzione nella cultura politica.

Ora, in questa zona, Hardt e Negri rimangono in silenzio. Ignorano sistematicamente tutta la letteratura critica (una gran parte della quale proveniente dagli Stati Uniti, peraltro) sulla Rivoluzione Americana che ha stabilito molto tempo fa che la Costituzione degli Stati Uniti è stata sistematicamente costruita per escludere ogni pericolo di una deviazione “popolare”. Il successo in questo senso è reale, suscitando l’invidia di tutti i reazionari europei che non ci sono mai riusciti (Giscard d’Estaing diceva che la costituzione del progetto europeo ultraliberale era “buona” quanto la Costituzione degli Stati Uniti!).

Le “aspirazioni” della moltitudine che si afferma come forza costitutiva dell’avvenire sono ridotte a ben poco: la libertà, in particolare quella di emigrare, e il diritto a un reddito socialmente garantito. Nell’indubbia preoccupazione di non avventurarsi al di fuori di ciò che è permesso dal liberalismo americano, il progetto ignora deliberatamente tutto ciò che potrebbe essere qualificato come patrimonio del movimento operaio e socialista, in particolare l’uguaglianza rifiutata dalla cultura politica degli Stati Uniti. È difficile credere nel potere trasformativo di una cittadinanza globale (ed europea) emergente, mentre le politiche attuate privano fondamentalmente la cittadinanza della sua efficacia.

La costruzione di una reale alternativa al sistema contemporaneo del capitalismo liberale globalizzato implica altre esigenze, in particolare il riconoscimento della gigantesca varietà di bisogni e aspirazioni delle classi popolari in tutto il mondo. In effetti, Hardt e Negri hanno molte difficoltà a immaginare le società della periferia (l’85 per cento della popolazione umana). I dibattiti riguardanti la tattica e la strategia per costruire un’alternativa democratica e progressista che fosse efficace nelle condizioni concrete e specifiche dei diversi paesi e regioni del mondo non sembrano mai averli interessati. La “democrazia” promossa dall’intervento degli Stati Uniti permetterebbe di andare oltre una farsa elettorale come quella in Ucraina, per esempio? Si possono ridurre i diritti dei “poveri” che popolano il pianeta al diritto di “emigrare” verso l’opulento Occidente? Un reddito socialmente garantito può essere una richiesta giustificabile. Ma si può avere l’ingenuità di credere che la sua adozione abolirebbe il rapporto capitalistico, che permette al capitale di impiegare il lavoro (e, di conseguenza, di sfruttarlo e opprimerlo), a vantaggio del lavoratore che da quel momento in poi sarebbe in grado di utilizzare liberamente il capitale e quindi di affermare il potenziale della sua creatività?

La riduzione del soggetto della storia all'”individuo” e l’unione di questi individui in una “moltitudine” risolvono le vere questioni riguardanti la ricostruzione dei soggetti della storia all’altezza delle sfide della nostra epoca. Si potrebbero citare molti altri importanti contributi per opporsi al silenzio di Hardt e Negri su questo argomento. Indubbiamente, i socialismi e i comunismi storici hanno avuto la tendenza a ridurre il soggetto principale della storia moderna alla “classe operaia”. Del resto, questo è un rimprovero che potrebbe essere rivolto al dell’operaismo. Per contrappunto, ho proposto un’analisi del soggetto della storia formato da particolari blocchi sociali capaci, nelle fasi successive della lotta popolare, di trasformare efficacemente i rapporti di forza sociali a vantaggio delle classi e dei popoli dominati.

Al momento attuale, raccogliere la sfida implica che si stia avanzando nella formazione di blocchi egemonici democratici, popolari e nazionali in grado di superare i poteri esercitati sia dai blocchi imperialisti egemonici che dai blocchi egemoni compradores. La formazione di tali blocchi avviene in condizioni concrete che sono molto diverse da un paese all’altro, cosicché nessun modello generale (sia nello stile della “moltitudine” che in un altro) ha senso. In questa prospettiva, la combinazione di progressi democratici e progresso sociale farà parte della lunga transizione verso il socialismo mondiale, così come l’affermazione dell’autonomia dei popoli, delle nazioni e degli Stati permetterà di sostituire una globalizzazione negoziata alla globalizzazione unilaterale imposta dal capitale dominante (che l’Impero ha deciso di fare da padronale). lodi!) e così decostruire gradualmente l’attuale sistema imperialista. L’approfondimento dei dibattiti su queste questioni reali è, senza dubbio, molto più promettente che proseguire l’esame di ciò che potrebbe essere la “moltitudine”.

La cultura politica dell’impero e della moltitudine è all’altezza della sfida?

La moda oggi è il “culturalismo”, una visione della pluralità umana fondata su alcune presunte invarianti culturali, in particolare religiose ed etniche. Lo sviluppo del “comunitarismo” e l’invito a riconoscere il “multiculturalismo” sono il prodotto di questa visione della storia. Tale visione non è quella della tradizione materialistica storica, che tenta di articolare le lotte di classe dei tempi moderni con le forme e le condizioni di partecipazione dei popoli colpiti dal sistema del capitalismo globalizzato. Le analisi prodotte nell’ambito di queste domande permettono di comprendere la varietà dei percorsi percorsi dalle diverse nazioni e di individuare la specificità delle contraddizioni che esistono all’interno delle società in questione e a livello del sistema globale. Queste analisi, quindi, ruotano attorno a quella che io chiamo la formazione delle culture politiche dei popoli del mondo moderno.

La questione che pongo qui riguarda la cultura politica sottesa agli scritti di Hardt e Negri. Si colloca nella tradizione materialistica storica o in quella del culturalismo? Ho proposto nel mio libro The Liberal Virus (Monthly Review Press, 2004) una lettura di due itinerari “europei”, da un lato, e americani, dall’altro, che formano le culture politiche dei popoli in questione. In questa sede mi limiterò a ricordare molto brevemente le grandi linee della mia argomentazione.

La formazione della cultura politica del continente europeo è il prodotto di un susseguirsi di grandi momenti formativi: l’Illuminismo e l’invenzione della modernità; la Rivoluzione Francese; lo sviluppo del movimento operaio e socialista e l’emergere del marxismo; e la Rivoluzione Russa. Questo susseguirsi di progressi non ha certo assicurato che le successive “sinistre” prodotte da questi momenti assumessero la gestione politica delle società europee. Ma ha formato il contrasto destra/sinistra nel continente. La controrivoluzione trionfante impose restaurazioni (dopo le rivoluzioni francese e russa), un ritiro dal secolarismo, compromessi con aristocrazie e chiese e sfide alla democrazia liberale. Ha indotto con successo i popoli interessati ad appoggiare i progetti imperialisti del capitale dominante e, a tal fine, ha mobilitato le ideologie nazionaliste scioviniste che hanno conosciuto il loro massimo splendore alla vigilia del 1914.

Ben diverso è il susseguirsi di momenti costitutivi della cultura politica degli Stati Uniti. Questi momenti sono: l’istituzione nel New England di sette protestanti anti-illuministe; il controllo della Rivoluzione Americana da parte della borghesia coloniale, in particolare da parte della sua fazione schiavista dominante; l’alleanza del popolo con quella borghesia, fondata sull’espansione delle frontiere che, a sua volta, portò al genocidio degli indiani; e il susseguirsi di ondate di immigrati che hanno frustrato la maturazione di una coscienza politica socialista e l’hanno sostituita con il “comunitarismo”. Questa successione di eventi è fortemente segnata dal dominio permanente della destra, che ha reso gli Stati Uniti il paese “più sicuro” per lo sviluppo del capitalismo.

Oggi una delle grandi battaglie che decideranno il futuro dell’umanità ruota attorno all'”americanizzazione” dell’Europa. Il suo obiettivo è distruggere il patrimonio culturale e politico europeo e sostituirlo con quello dominante negli Stati Uniti. Questa opzione ultra-reazionaria è quella delle forze politiche dominanti in Europa oggi e ha trovato una perfetta traduzione nel progetto della Costituzione europea. L’altra battaglia è quella tra il “Nord” del capitale dominante e il “Sud”, l’85% dell’umanità che sono vittime del progetto imperialista della triade. Hardt e Negri ignorano la posta in gioco in queste due battaglie decisive.

L’elogio sconsiderato che fanno della “democrazia” americana contrasta fortemente con gli scritti degli analisti critici della società nordamericana, respinti in anticipo perché il loro “anti-americanismo” li squalifica (agli occhi di chi? l’establishment americano?). Citerò qui solo America Right or Wrong: An Anatomy of American Nationalism di Anatol Lieven (Oxford University Press, 2004), le cui conclusioni coincidono in gran parte con le mie, nonostante i nostri diversi punti di partenza ideologici e scientifici. Lieven collega la tradizione democratica americana (la cui realtà nessuno contesterebbe) alle origini oscurantiste del paese (che si perpetua e si riproduce dalle successive ondate di immigrati). La società statunitense, da questo punto di vista, finisce per assomigliare molto di più al Pakistan che alla Gran Bretagna. Inoltre, la cultura politica degli Stati Uniti è un prodotto della conquista dell’Occidente (che porta a considerare tutti gli altri popoli come “pellerossa” che hanno il diritto di vivere solo a condizione di non ostacolare gli Stati Uniti). Il nuovo progetto imperialista della classe dominante statunitense richiede un raddoppio di un nazionalismo aggressivo, che diventa ormai l’ideologia dominante e ricorda l’Europa del 1914 piuttosto che l’Europa di oggi. A tutti i livelli, gli Stati Uniti non sono “avanti” alla “vecchia Europa”, ma indietro di un secolo. Questo è il motivo per cui il “modello americano” è favorito dalla destra e, purtroppo, da segmenti della sinistra, tra cui Hardt e Negri, che sono stati conquistati al liberalismo in questo momento.

Al di là delle due tesi dell’Impero («l’imperialismo è superato») e della Moltitudine («l’individuo è diventato il soggetto della storia»), il discorso di Hardt e Negri mostra un tono di rassegnazione. Non c’è alternativa alla sottomissione alle esigenze dell’attuale fase dello sviluppo capitalistico. Si potranno combattere le sue conseguenze dannose solo integrandosi in essa. Questo è il discorso del nostro momento di sconfitta, un momento che non è stato ancora superato. Questo è il discorso della socialdemocrazia conquistata al liberalismo, degli europeisti conquistati all’atlantismo. La rinascita di una sinistra degna di questo nome, capace di ispirare e attuare il progresso a beneficio del popolo, richiede una rottura radicale con discorsi di questo tipo.

Note

*Michael Hardt e Antonio Negri, Empire (Cambridge: Harvard University Press, 2000) e Multitude: War and Democracy in the Age of Empire (New York: Penguin, 2004). Questi autori non affrontano direttamente un gran numero di questioni fondamentali di “ciò che è nuovo” nel capitalismo, come quelle riguardanti il capitalismo “cognitivo” o finanziario, l’organizzazione del lavoro e della produzione e la geopolitica. Voglio chiarire che non li rimprovero per questo, ma solo per aver tratto conclusioni ingiustificate a sostegno delle loro idee da questi nuovi sviluppi non esaminati. Esistono letture molto diverse delle trasformazioni in questione che discuterò in altre occasioni. Empire è stato scritto prima dell’11 settembre 2001, il che non giustifica in alcun modo l’accettazione da parte di Hardt e Negri del volgare discorso propagandistico di Washington, sostenendo che interviene solo su richiesta popolare, per ragioni umanitarie, per la difesa della democrazia, senza la minima considerazione degli interessi materiali egoistici!2005Volume 57, Numero 06 (Novembre)

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