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Salvatore Tinè: Appunti su A. Mazzone, Per una teoria del conflitto. Scritti 1999-2012

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Appunti su A. Mazzone, Per una teoria del conflitto. Scritti 1999-2012

di Salvatore Tinè

Copertina MazzoneAl centro della riflessione di questi saggi raccolti in un volume significativamente e giustamente intitolato Per una teoria del conflitto è il tema gramsciano dell’egemonia che Mazzone riprende e sviluppa sulla base di una interpretazione della teoria marxiana del modo di produzione capitalistico come «modello di processo», ovvero come base economica e materiale ma anche nello stesso tempo parte e momento per quanto centrale e fondamentale del più vasto e concreto processo storico di quella che lo studioso marxista definisce «riproduzione sociale complessiva». Si tratta di una nozione centrale nella riflessione di Mazzone. A partire da essa, egli riformula infatti in una chiave non più economicistica o materialistico-volgare il rapporto tra base economica e sovrastruttura ideologico-politica su cui si basa la dottrina marxista sia come critica dell’economia politica che come concezione materialistica della storia. Mazzone intende infatti per «riproduzione sociale complessiva» proprio il complesso di tutte quella attività umane vitali non solo lavorative che costituiscono la cosiddetta sovrastruttura, senza le quali non potrebbe realizzarsi la riproduzione di quei rapporti di produzione nel cui ambito soltanto operano e si trasformano le forze produttive del lavoro umano associato. È questo nesso inscindibile, sempre storicamente determinato, tra produzione e riproduzione, questo blocco storico per dirla con Gramsci tra struttura e sovrastruttura, che Mazzone identifica con la stessa egemonia, intesa perciò sempre come lotta per l’egemonia, come rapporto di forze mai statico ma sempre in sviluppo e dinamico tra le classi fondamentali della società in lotta tra loro, capitalisti da un lato e lavoratori salariati dall’altro.

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Vincenzo Comito: Le nuove mosse di Biden contro la Cina

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Le nuove mosse di Biden contro la Cina

di Vincenzo Comito

Iniziata da Trump, la strategia anticinese americana prosegue con Biden e crescenti pressioni verso alleati europei e imprese restii a recidere i legami con il paese asiatico. Ursula von der Leyen esegue, passando però dal “decoupling” – sganciamento economico – al “derisking”

I risultati del decoupling di Trump

Secondo le informazioni pubblicamente disponibili, è stato a suo tempo sotto la presidenza Obama, di cui ricordiamo il suo slogan Pivot to Asia, che il governo statunitense ha cominciato a preoccuparsi fortemente per la crescita cinese e da allora i tentativi di bloccare, o almeno di frenare, l’emergere del paese asiatico sulla scena mondiale sono diventati sempre più aggressivi, mentre ancora oggi non mostrano certo segni di indebolimento.

È con Trump che apparentemente si comincia a tentare di fare sul serio; il presidente, mentre invitava, peraltro con molto scarso successo, le imprese Usa a lasciare la Cina, introduceva dazi rilevanti su una parte consistente delle merci cinesi, mentre cercava al contempo di bloccare le tecnologie Huawei e ZTE nel 5G, spingendo i paesi alleati a fare altrettanto.

Ma le sue azioni non hanno portato apparentemente a grandi risultati, come mostrano ad esempio le cifre e le valutazioni tratte da un recente articolo apparso sul South China Morning Post (Yukon Huang, 2023). Il deficit commerciale Usa – secondo le cifre avanzate dall’autore – è stato nel 2022 superiore a quello dell’anno in cui Trump si è insediato. Il peso delle importazioni cinesi sul Pil è passato dal 31% del 2017 al 34% del 2022. È vero che la quota della Cina è scesa nel periodo considerato dal 22% al 17%, ma le esportazioni complessive della Cina verso il mondo sono sempre cresciute e in particolare verso quei paesi (Vietnam, Messico, India ed altri) che hanno sostituito la Cina su alcune tipologie di merci. Nella sostanza questi paesi hanno riesportato verso gli Usa semilavorati forniti loro da Pechino. Incidentalmente molte imprese cinesi hanno aperto delle fabbriche in tali paesi, da dove esportare poi negli Stati Uniti.

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Silvia Guerini: Chi finanzia il movimento LGBTQ

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Chi finanzia il movimento LGBTQ

di Silvia Guerini

LGBTQ
headerA livello internazionale stiamo assistendo a una saturazione mediatica delle rivendicazioni trans ed LGBTQ+, ma è davvero una questione di diritti per una molto piccola anzi piccolissima parte della popolazione globale o c’è un’agenda più ampia e più profonda? La causa LGBTQ+ si trova oggi tra i primi posti nell’agenda dei potenti e i suoi sostenitori sono ai vertici dei media, del mondo accademico e soprattutto del Big Business, della Big Philanthropy e del Big Tech.

I finanziamenti del movimento transfemminista LGBTQ provengono da determinate fondazioni e organizzazioni, come la Open Society Foundations (OSF) di George Soros, per citare la più conosciuta. Meno conosciuta, ma particolarmente significativa è la Terasem Movement Foundation del transumanista Martine Rothblatt, “transessuale MtF”, ceo di United Therapeutics, multinazionale farmaceutica e biotecnologica, impegnata in nuove tecnologie biomediche e xenotrapianti, nel cui consiglio di amministrazione siede il noto transumansta Ray Kurzweill. Rothblatt possiede la più grande azienda per la clonazione di maiali per xenotrapianti in un progetto di ricerca in partnership con la Synthetic Genomics, multinazionale che opera nel campo della biologia sintetica del noto Craig Venter[1]. Rothblatt è anche membro della National Academies of Science, Engineering and Medicine, finanziato dal DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency[2]).

Rothblatt, come altri transumanisti impegnati anche in opere divulgative, ha scritto svariati libri per il largo pubblico in merito alla mappatura del DNA, screening genetici, riproduzione artificiale dell’umano.

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Federico Fioranelli: Andre Gunder Frank: sottosviluppo o rivoluzione

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Andre Gunder Frank: sottosviluppo o rivoluzione

di Federico Fioranelli*

“Frank, in “Capitalismo e sottosviluppo in America Latina”, dimostra che il sottosviluppo dei “satelliti” (i Paesi sottosviluppati) viene generato da quello stesso processo storico che genera anche lo sviluppo delle “metropoli” (i Paesi sviluppati), cioè il processo storico mondiale di espansione e crescita del capitalismo”

Andre Gunder Frank, pseudonimo di Andreas Frank, nasce a Berlino il 24 febbraio 1929.

Nel 1941 emigra con la sua famiglia negli Stati Uniti, nel 1950 si laurea in economia presso lo Swarthmore College e nel 1957 consegue un dottorato con una tesi sull’agricoltura sovietica presso l’Università di Chicago e sotto la supervisione di Milton Friedman.

Dal 1957 al 1968 insegna in varie università degli Stati Uniti, del Brasile, del Messico e del Canada.

Dal 1968 al 1973 lavora come professore di sociologia ed economia all’Università del Cile. In questo periodo viene coinvolto nelle riforme del governo di Allende e scrive le sue opere più importanti: Capitalismo e sottosviluppo in America Latina (1969) e America Latina: sottosviluppo o rivoluzione (1971).

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Sergio Cararo: Il governo “balla”, sul MES ma non solo

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Il governo “balla”, sul MES ma non solo

di Sergio Cararo

La giornata di ieri ha visto il governo entrare di nuovo in seria difficoltà, soprattutto sulla questione Mes – il Meccanismo Europeo di Stabilità – che l’Italia non ha ancora ratificato. E meno male, aggiungiamo noi.

Ieri addirittura la maggioranza ha disertato il voto in Commissione Esteri alla Camera, facendo parlare la stampa di “inedito Aventino governativo”. Lo stesso Consiglio dei ministri previsto per ieri è stato rinviato a martedì, per “sopraggiunti impegni personali” di Giorgia Meloni.

La ratifica del MES da parte dell’Italia deve passare al vaglio dei pareri delle altre commissioni prima di approdare alla Camera il prossimo 30 giugno.

Proprio in quella data la Meloni sarà a Bruxelles per il Consiglio europeo – che si annuncia come un passaggio pericoloso per il centrodestra. Da Bruxelles si guarda “con attenzione al dibattito italiano”, fanno sapere fonti europee, e non è un mistero che alla fine ci si attenda alla fine la capitolazione del governo italiano alla ratifica del Mes.

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Andrea Zhok: I quattro indizi che in occidente qualcuno lavora per il “casus belli” nucleare

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I quattro indizi che in occidente qualcuno lavora per il “casus belli” nucleare

di Andrea Zhok

Indizi:

1) Due giorni fa Zelensky ha messo in guardia contro un’operazione russa contro la centrale nucleare di Zaporizhzhia, richiamando come un precedente (sic!) il caso della diga di Nova Kakhovka.

2) Quasi simultaneamente i senatori americani Lindsay Graham (Repubblicani) e Richard Blumenthal (Democratici) hanno proposto una risoluzione che considera ogni spargimento di materiale nucleare in Ucraina come un atto lesivo per i paesi confinanti e dunque come equivalente ad un’aggressione a paesi Nato, sufficiente a fare scattare l’art. V dell’alleanza.

3) Ieri sono stati arrestati dal servizio di sicurezza russo alcune persone che stavano contrabbandando un chilogrammo di Cesio radioattivo. Al netto dei sospetti russi – dunque di parte – che la destinazione fosse l’Ucraina, è significativa la possibilità stessa che un chilogrammo di un materiale di tale pericolosità fosse disponibile per il mercato privato.

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Piccole Note: Il golpe fallito rafforza Putin, come avvenuto per Erdogan e Maduro…

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Il golpe fallito rafforza Putin, come avvenuto per Erdogan e Maduro…

di Piccole Note

Nel fallito golpe russo si possono rinvenire topos narrativi già noti. Uno tra i più gettonati è che in realtà Putin fosse d’accordo con Prigozhin, che cioè il golpe fosse finto, brandito per far venire allo scoperto i traditori in seno all’apparato russo. Si disse anche per il fallito golpe che nel 2016 avrebbe dovuto spodestare Erdogan. Ed erano sciocchezze, come le attuali.

Il golpe era vero ed è stato gestito in maniera intelligente dallo zar, tanto da farlo rientrare in meno di 24 ore senza versare una goccia di sangue (qualche scaramuccia, qualche vittima, ma azioni più che isolate). Si può immaginare se fosse accaduto in America: un’armata ribelle prende il controllo di un’importante città e marcia sulla capitale.

L’aviazione avrebbe decimato l’armata in marcia e l’esercito preso d’assalto la città. Decina di migliaia di morti, lo spettacolo di una lotta fratricida che Putin non ha voluto regalare ai suoi nemici.

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Alastair Crooke: L'”impossibilità di fare altro”: l’Occidente è entrato in una trappola (mortale) senza uscita

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L'”impossibilità di fare altro”: l’Occidente è entrato in una trappola (mortale) senza uscita

di Alastair Crooke

La tragedia che affligge l’Occidente oggi consiste, da un lato, nella pura e semplice impossibilità di continuare a fare ciò che ha fatto – ma dall’altro nell’impossibilità di fare altro.

E perché è così? Perché non esistono più le condizioni che hanno dato origine all’Epoca d’oro che ha creato la “Generazione Comfort”: Credito a tasso zero, inflazione zero, media collusi, energia a basso costo che “sovvenziona” una base manifatturiera sempre più ridotta e sclerotica (almeno in Europa).

Quei decenni sono stati il fugace “momento di gloria” dell’Occidente. Ma è finito. La “periferia” può farcela da sola, grazie! Se la cava bene – anzi, meglio del centro imperiale di questi tempi.

Il paradosso più profondo è che tutte le scelte facili sono alle nostre spalle. E i venti contrari del debito, dell’inflazione e della recessione ci stanno colpendo violentemente. Il “disfacimento” del sistema è già presente sotto forma di debolezza governativa e istituzionale: al “sistema” è mancata la volontà di prendere decisioni difficili quando poteva farlo. Le scelte facili erano ancora disponibili, e la via più facile era invariabilmente quella scelta.

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Fabio Ciabatti: La silenziosa coazione verso il baratro

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La silenziosa coazione verso il baratro

di Fabio Ciabatti

Søren Mau, Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, Verso Book, London 2023, edizione kindle, pp. 511, € 8,36 (edizione cartacea p. 340, € 24,29)

Marx 4Il modo più comune per spiegare la riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche fa riferimento al potere delle classi dominanti di fare leva sulla forza e sull’ideologia. L’importanza di queste dinamiche non sarà certo negata da chi scrive su una rivista che parla di immaginario e che da tempo insiste sulla deriva bellica del nostro presente. Se però vogliamo dare una spiegazione storicamente determinata di queste due dimensioni del dominio, esse devono essere messe in relazione con i fondamenti materiali del nostro mondo e dunque con un altro tipo di potere che Marx definisce la “silenziosa coazione dei rapporti economici”, vale a dire con il potere economico del capitale. Quest’ultimo, contrariamente a quanto accade con la forza e l’ideologia, si rivolge ai soggetti solo indirettamente, riconfigurando in continuazione le condizioni materiali, le attività e i processi necessari per la loro riproduzione sociale e per assicurare la continuazione dell’esistenza della vita collettiva.

Potrebbe sembrare fuori luogo fermare l’attenzione su questo aspetto in un momento storico caratterizzato dall’esplosione della violenza statale nella sua forma più estrema, la guerra, e dall’assordante volume della fanfara ideologica connessa alle vicende belliche. Ma ci troveremmo a questo punto se il sistema capitalistico non fosse in grado di esercitare un potere astratto, impersonale, semiautomatico che spinge i soggetti, anche al di là delle loro convinzioni, a mantenere immutati i comportamenti quotidiani legati alla loro riproduzione materiale nonostante questi ci stiano portando con ogni evidenza sull’orlo del baratro?

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Di Justin Podur: Stiamo vivendo una de-dollarizzazione?

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Stiamo vivendo una de-dollarizzazione?

di Di Justin Podur* – Globetrotter

dedollarizzazioneLa de-dollarizzazione sembra arrivata, “che ci piaccia o no“, come afferma un video del maggio 2023 del Quincy Institute for Responsible Statecraft, un think tank orientato alla pace, con sede a Washington.

Il Quincy non è l’unico a parlare di de-dollarizzazione: gli economisti politici Radhika Desai e Michael Hudson ne hanno illustrato i meccanismi in quattro trasmissioni tra febbraio e aprile 2023 nel loro programma quindicinale su YouTube, “Geopolitical Economy Hour“.

L’economista Richard Wolff ha fornito una spiegazione di nove minuti su questo argomento sul canale Democracy at Work. Dall’altra parte, media come Business Insider hanno assicurato ai lettori che il dominio del dollaro non è destinato a scomparire.

Il giornalista Ben Norton ha riferito di un’audizione bipartisan di due ore tenutasi al Congresso il 7 giugno: “Dollar Dominance: Preserving the U.S. Dollar’s Status as the Global Reserve Currency“, sulla difesa della valuta statunitense dalla de-dollarizzazione. Durante l’audizione, i membri del Congresso hanno espresso sia ottimismo che ansia per il futuro del ruolo supremo del dollaro. Ma cosa ha spinto questo dibattito?

Fino a poco tempo fa, l’economia globale accettava il dollaro come valuta di riserva mondiale e valuta delle transazioni internazionali. Le banche centrali di Europa e Asia avevano un appetito insaziabile per i titoli del Tesoro americano denominati in dollari, che a loro volta conferivano a Washington la capacità di spendere denaro e finanziare il proprio debito a volontà.

Se un Paese avesse sgarrato politicamente o militarmente, Washington poteva sanzionarlo, escludendolo dal sistema di commercio globale denominato in dollari del resto del mondo.

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comidad: La contestuale criminalizzazione della Russia e del metano

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La contestuale criminalizzazione della Russia e del metano

di comidad

Come è noto, il casus belli dell’ingresso degli USA nella guerra del Vietnam, fu il famoso “incidente del Golfo del Tonchino”. Con tale espressione ci si riferisce ad una serie di episodi segnalati dalla US Navy e datati tra il 2 ed il 4 agosto del 1964. A distanza di pochi anni l’intera ricostruzione dell’accaduto si sgonfiò; in particolare si accertò che non vi era stato alcun attacco da parte nord-vietnamita contro le navi statunitensi. L’aspetto interessante della vicenda non sta tanto nello stabilire se l’incidente fu “cercato” o meno dagli USA, quanto invece nel rilevare come un “non evento” possa assumere le caratteristiche di una narrazione enfatica con effetti reali, come quelli di mobilitare un’intera opinione pubblica a favore della guerra.

A distanza di soli tre anni dal presunto “incidente del Golfo del Tonchino”, alla US Navy toccò invece di subire un attacco vero. Fu il più grave e sanguinoso attacco mai verificatosi dalla fine della seconda guerra mondiale ad un’unità navale statunitense, con trentaquattro morti ed oltre un centinaio di feriti nell’equipaggio della USS Liberty, una nave con compiti di rilevamento elettronico.

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Fabio Mini: Ucraina, la controffensiva si è già impantanata

fattoquotidiano

Ucraina, la controffensiva si è già impantanata

L’avanzata si limita a pochi chilometri

di Fabio Mini

Quanto potrà durare la retorica degli aiuti militari per far vincere Zelensky? Biden punta a ritrovare l’egemonia economica Usa

In genere le prime dieci ore e i primi dieci giorni sono indicativi dello sviluppo delle operazioni. Le prime ore indicano le linee di approccio facendo capire quali sono le principali e le sussidiarie; i primi dieci giorni danno l’idea degli obiettivi, della consistenza dell’attacco e delle sue potenzialità. In Ucraina, le prime ore non hanno chiarito nulla e anzi hanno sollevato molte perplessità: un attacco, o tre o cinque, su 800 chilometri di fronte non consente di capire molto sulla ratio dell’intera operazione. E anche ammesso che ciò sia voluto per sorprendere l’avversario occorre valutare il rischio che nemmeno i propri comandanti sul terreno la capiscano e siano i primi ad essere sorpresi.

Dopo dieci giorni la situazione non è migliorata. Il New York Times cerca di rassicurare sui successi ucraini della “estenuante, ma promettente controffensiva ucraina anche se a caro prezzo”.

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Marinella Mondaini: Nuove armi nucleari Usa in Europa. Il grido di allarme dell’ICAN (totalmente censurato)

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Nuove armi nucleari Usa in Europa. Il grido di allarme dell’ICAN (totalmente censurato)

di Marinella Mondaini

Gli Stati Uniti, senza dichiarazioni ufficiali, hanno piazzato segretamente circa 150 nuove bombe nucleari in Europa e precisamente nelle basi aeree americane di cinque paesi europei: Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Turchia. Lo ha annunciato lunedì 12 giugno Alicia Sanders-Zakre, coordinatrice delle politiche della ricerca per la Campagna Internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (ICAN), in una conferenza stampa a Ginevra con i giornalisti accreditati dall’ONU dell’associazione ACANU. “Sebbene non ci siano conferme o smentite ufficiali, sappiamo che ci sono armi nucleari dispiegate in cinque paesi in Europa e in Asia: Germania, Belgio, Paesi Bassi, Italia e Turchia. Secondo gli esperti della società civile, ci sono circa 150 testate dispiegate in questi stati nelle basi aeree statunitensi”, ha affermato Alicia Sanders-Zakre.

L’ICAN, per chi non lo sapesse, significa “Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari”, una coalizione di organizzazioni non governative fondata nel 2007 a Melbourne, in Australia. Mira al completo disarmo nucleare e nel 2017 le è stato conferito il Premio Nobel per la Pace.

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Leo Essen: Rogue State. Il 18 Brumaio di Marx

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Rogue State. Il 18 Brumaio di Marx

di Leo Essen

Nel 1851 Joseph Weydemeyer chiede a Marx di scrivere alcuni articoli su Filippo Bonaparte per un settimanale newyorkese. Marx scrive e invia settimanalmente, fino al febbraio del 1852, una serie di articoli che saranno raccolti nel libro Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte.

Giorgio Giorgetti, nell’introduzione all’edizione Editori riuniti, dice, giustamente, che gli articoli del 18 brumaio andrebbero letti insieme a quelli raccolti in Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, scritti da Marx da gennaio e novembre del 1850, i quali trattano gli stessi temi ma con maggiore ricchezza di considerazioni e di dettagli.

La verità è che Il 18 brumaio è strepitoso. È un catalogo di personaggi, soprattutto sottoproletari – la Bohème.

Siamo nel 1850 in Francia. Ma potremmo essere in Italia nel 1994, al tempo del Presidente Ciampi. Oppure nel 2014, al tempo della troika in Grecia. Oppure in Argentina, o in Russia al tempo di Boris Eltsin.

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Prabhat Patnaik: Le insidie della crescita guidata dalle esportazioni

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Le insidie della crescita guidata dalle esportazioni

di Prabhat Patnaik

Dopo lo Sri Lanka e il Pakistan, il Bangladesh è diventato il terzo Paese del nostro vicinato ad essere afflitto da una grave crisi economica. Ha chiesto un prestito di 4,5 miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale, oltre a un miliardo di dollari alla Banca Mondiale e 2,5-3 miliardi di dollari alle agenzie multilaterali e alle nazioni donatrici. Sebbene il governo abbia fatto buon viso a cattivo gioco, il Bangladesh si trova ad affrontare un crescente deficit commerciale, una riduzione delle riserve valutarie, un rapido deprezzamento della valuta, un’inflazione record e una crisi energetica che ha reso necessarie massicce interruzioni di corrente.

Ironia della sorte, solo pochi mesi fa il Bangladesh veniva salutato come una storia di successo nello “sviluppo” e in effetti, secondo molti indicatori di sviluppo, aveva compiuto notevoli progressi. L’alfabetizzazione femminile era salita al 73%, il tasso di mortalità infantile era diventato la metà di quello del Pakistan, da cui si era separato nel 1971 e il suo “Indice di sviluppo umano” era superiore a quello dell’India, del Pakistan e di molti altri Paesi della regione.

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